venerdì 4 maggio 2007

Il regno del sangue

di Simon Clark
560 pagine
Newton Compton Editori, 2006
9,90 €

Per Rick Kennedy è davvero un momento felice. Stanotte andrà a una festa memorabile, ci sarà suo fratello che non vede da anni e forse riuscirà anche a sedurre Kate, la ragazza di cui è innamorato. Nel tranquillo villaggio di Fairburn la sera è piacevolmente calda. Quando nel buio Rick crede di vedere una strana creatura dal volto grigio aggirarsi nel bosco e scrutarlo, pensa sia solo un'allucinazione, un incubo passeggero. Ma il risveglio sarà terribile. Il giorno seguente la città è invasa da migliaia di uomini e donne, scampati a un misterioso cataclisma che ha avuto luogo in tutta l'Inghilterra e non solo: la terra si riscalda, le città bruciano, l'acqua dei laghi ribolle. Sembra la fine del mondo e chi è riuscito a evitare l'orrore scatenato dalla natura è disposto a tutto pur di sfuggire all'ira dei misteriosi Demoni Grigi.

L’Apocalisse secondo Simon Clark (La città dei vampiri, Il lago dei vampiri, entrambi editi in Italia dalla stessa Newton Compton) sarà dovuta a un improvviso riscaldamento interno della Terra, al quale seguirà un’orgia di eruzioni vulcaniche e maremoti d’acqua bollente, che trasformeranno il suolo terrestre in un deserto di cenere e di false speranze.
Ma non solo.
Perché di mezzo ci sono anche i misteriosi Uomini Grigi, furiosi umanoidi palestrati, dagli occhi di magma fumante, che tifano per la distruzione incondizionata di tutto e di tutti. Non si sa da dove vengano né chi siano, ma la loro fame di violenza è già di per sé un notevole problema da risolvere, e il tempo per farsi altre paranoie mentali non è che abbondi.
C’è da dire che le parole di Clark sono capaci di catturare, nei primi capitoli. Vi è un vago sentore fanciullesco-adolescienziale, fatto di sogni e ormoni, che regala spensieratezza e curiosità. Alla titanica festa di Ben Cavallero, infatti, teatro delle presentazioni dei tre eroi del romanzo – i dongiovanni fratelli Kennedy e la dolce e sinuosa Kate – si respira veramente un profumo di giovane allegria e di amori prossimi alla fioritura. Merito anche dello zampino di un genuino sense of humor, più che altro nei dialoghi, semplice e benvoluto.
E anche quando entra in scena la fine del mondo, nel suo lento incedere, misterioso e singolare, la lettura strega e appassiona, inserendo addirittura qua e là inusuali spunti di riflessioni, azzeccati e graditi.
È solo quando l’immane catastrofe diventa routine, e ci si addentra nelle viscere dell’avventura che dovrebbe reggere il corpo della trama, che le cose precipitano vergognosamente. La scrittura, via via che scorrono le pagine, si fa sempre più elementare e priva di nervo, diventando addirittura irritante nelle ultime duecento pagine. Il tutto per colpa, primo, di un improvviso calo dell’effetto sorpresa e per un’inspiegabile voglia di descrivere ciò che accade sempre e solo con gli stessi termini; secondo, per una virata narrativa terribilmente improbabile (Simon Clark deve aver visto in loop continuo Ken il Guerriero, vista la strana e tamarra idea che ha dei senzatetto e dei reietti della società), che ha anche il coraggio di sfociare in un finale privo di rivali in quanto a ridicolo e inverosimiglianza.
Il critico che è in me mi dice di aggiungere pure delle numerose e lunghissime parti di romanzo in cui vengono narrate le prestazioni sessuali dei vari protagonisti, in un insostenibile e chilometrico susseguirsi di dialoghi del tipo “oooh, aaah, sììì”. Indecente, davvero. E, in tema di espressioni fumettistiche, segnalo un fiume inarrestabile di thud!, ouch!, e varie sconcezze narrative che fanno soltanto sorridere e scuotere la testa.
Altra cosa che fa arrabbiare è il continuo scambio di narratore, che, man mano che si arriva verso la fine del viaggio, diventa sempre più sgradevole e seccante, vista la sua evidentissima natura di basso espediente al fine di allungare il brodo.
Visto che voglio fare il cattivo, infine, bisogna dare atto ad Alessandro Pilo, il signor traduttore, di aver fatto un lavoro osceno e indecoroso, sbrodolando “d” eufoniche in continuazione, e tralasciando ripetizioni in ogni dove e in ogni quando.
Tutto questo è un peccato, perché se il romanzo fosse stato di un duecento pagine più breve, ne avrebbe sicuramente guadagnato. Il neo dell’estrema lunghezza (quasi seicento pagine, ma vista la grandezza dell’impaginazione, non esagero a dire che, comunemente parlando, potrebbero essere in realtà addirittura settecento), invece, si porta con sé, oltre a quanto detto sopra, una naturale perdita di interesse. L’azione si fa ripetitiva all’inverosimile, i personaggi si scarnificano delle loro indovinate caratterizzazioni dei primi capitoli, acquisendo invece comportamenti piatti e inspiegabili, e così, ahinoi, non si prova più alcun legame affettivo con loro.
Concedo solamente un pollice in su per l’oscuro artwork (anche se del tutto estraneo a quanto raccontato nella vicenda) e per il prezzo davvero stuzzicante, nonostante la mole di facciate.
Ignoro, senza tanti ripensamenti, la restante produzione letteraria di Simon Clark, e soprattutto fingo di non vedere le lusinghe che fanno bella mostra di sé nel retro copertina. So solo che Il regno del sangue è e rimane un mattone insipido e noioso, e tanto deve bastarvi per evitare un’inutile e cancerogena sottrazione di denaro.

giovedì 3 maggio 2007

Lost – A proposito della stagione due

Ciò che resta dei misteri della seconda tornata

L’isola più bizzarra che la geografia ricordi continua a sfornare punti di domanda. E se da una parte, tra i meandri della jungla e nelle pareti del bunker, qualche risposta viene a galla, nuovi enigmi firmano la loro presenza.
Lo sviluppo che prende piede con la stagione due di Lost è di quelli che la televisione non ha mai sfoggiato fino a ora in curricolo. La scoperta di cosa si cela dentro il bunker, l’arrivo di nuovi sopravvissuti al disastro aereo, la dipartita di uno dei personaggi più detestati della prima serie, uno scorcio di visione sulla realtà dei temutissimi Altri, sono elementi capaci di attanagliare lo spettatore voglioso di soluzioni.
I protagonisti poi cambiano faccia: l’antipatico Jin diventa eclettico e pimpante, Sayer accantona momentaneamente l’aria da sfacciato cazzone, e il carismatico Sayid viene accomodato in secondo piano.
Man mano che i giorni trascorrono, però, sull’isola cala presto una nebbia di stasi e immobilità narrativa. La virata crudele riguardante l’ex tossico Charlie (la più esemplare – già meglio con la personalità di Micheal) non viene infatti ricompensata da una sceneggiatura forte da resistere e sostenere simili asprezze di trama. Il tutto si trasforma in dialoghi che, per nascondere una scomoda miseria d’idee, tendono al filosofico, lasciando l’amaro in bocca. Se infatti i flashback si fanno via via sempre più costruiti e a incastro tra i vari protagonisti (tralasciando la banalità del passato di Mister Eko), l’azione sull’isola diventa noiosetta, negando ai fans qualsiasi spiraglio evolutivo (se non qualche apprezzata svolta, come la scoperta – o quasi – del rapimento di ai danni di Claire nella staginoe uno).
Per fortuna, nelle ultime otto-dieci puntate, con la comparsa del misterioso Harry, la serie riprende vigore e inventiva, in una sequenza spaventosa di colpi di scena e di nuovi rebus televisivi (con tanto di ovvio finale lasciato a metà) che, a questo punto, troveranno uno straccio di risposta soltanto nella terza manche (prossima alla conclusione negli States).
Restano sempre e comunque enormi interrogativi (il ruolo della Rousseau, la vera natura degli Altri, il motivo dei tanti bunker disseminati nell’isola, il progetto Dharma), ma tassello dopo tassello, il vasto puzzle inizia finalmente a comporsi. Basta avere pazienza.

martedì 1 maggio 2007

La morte dietro la porta

Regia: Bob Clark
Cast: John Marley, Lynn Carlin, Richard Backus, Henderson Forsythe, Anya Ormsby, Jane Daly
Durata: 88’
Produzione: USA/Canada/UK
Anno: 1975

Il giovane Andy è partito per il Vietnam, promettendo alla propria famiglia di tornare sano e salvo quanto prima. Purtroppo, una pallottola vagante infrange la parola data, e Andy soccombe nel campo di battaglia. Tuttavia, una notte, quello che bussa a casa Brooks, è proprio Andy.

Bob Clark, prima della virata porcellona-adolescenziale della serie Porkys, dell’anonimato assegnatogli dalla televisione e, purtroppo, della recente scomparsa in un incidente automobilistico, era un paladino del nostro genere preferito, capace di mettere in piedi nel ’74 quel Black Christmas, papà immortale di tutti gli slasher, che tante lezioni di cinema è stato in grado di dare.
Con il successivo La morte dietro la porta, invece, Clark cosparge la pellicola di un’atmosfera tragico-sentimentale che si respira adagio, in un silenzio morboso che sfocia sangue e sorrisi deviati soltanto nel finale. Tutto, in La morte dietro la porta, è votato a una ricerca quasi esasperata della componente drammatica e angosciosa, e lo stesso clima in cui si è immersi non concede mai spiragli di luce o di salvezza cinematografica. La lentezza impassibile di cui si fa portavoce la trama non lascia scampo, avvolgendo lo spettatore attento (giovinastri che vogliono tutto e subito via da qui!) in un miasma di sofferenza e disperazione.
La struttura narrativa verte quindi verso lunghe parti dialogate, profonde e ricche di particolari, che esplorano psicologie e caratteri – via via sempre più in frantumi – dei familiari di Andy, di fronte alla sua enigmatica ricomparsa e al suo preoccupante comportamento. E Clark è asfissiante nelle sue immagini fisse e in quei primi piani struggenti, anche se spesso si concede a classiche zoomate alla velocità della luce, tipicamente seventies styles, che stonano non poco con il contesto sepolcrale e opprimente – ma non si tratta che di difetti temporali, tranquillamente trascurabili.
Eccolo qui, l’orrore di una volta, che nulla ha da spartire con la frettolosa scarica ormonale della sezione horror odierna. Script, dialoghi, personaggi, critica sociale, su questi punti – oggigiorno quasi completamente trascurati – ci si concentrava tanto tempo fa, costruendo le pellicole atmosfera dopo atmosfera, e non tetta dopo tetta.
Soltanto nell’amaro epilogo, pregno di commozione e denuncia, la furia horror della pellicola si erge in tutta la sua carica violenta e disorientante, cogliendo di sorpresa per via di un’accelerazione inaspettata ma benvoluta, che sa colpire allo stomaco e agli occhi.
Tormenti e dolori sono ben portati alla luce da John Marley e soprattutto da Lynn Carlin, marito e moglie che vedono l’annichilente distruzione del proprio matrimonio sotto i colpi inferti dall’angosciante personaggio interpretato da Richard Backus. Ma forse la prova che più emerge spetta a Jane Daly, figura soltanto comprimaria, capace però di rischiarare con la sua felicità la pesantezza emotiva del lungometraggio.
Un plauso alla Gargoyle, che tra un mare di uscite di pura immondizia, riesce ogni tanto a indovinare qualche centro (di prossima uscita anche il già citato Black Christmas). E un sentito ringraziamento a Bob Clark, per un pezzo di storia cinematografica che, anche lui, ha contribuito a far nascere.

venerdì 27 aprile 2007

Stay alive

Regia: William Brent Bell
Cast: Jon Foster, Samaire Armstrong, Frankie Muniz, Sophia Bush, Jimmi Simpson, Adam Goldberg, Milo Ventimiglia, Jim Bishop
Sceneggiatura: William Brent Bell, Matthew Peterman
Durata: 85 minuti
Produzione: USA
Anno: 2006
Alcuni giovani ragazzi passano le proprie giornate on line, protagonisti virtuali di un videogame horror che mozza il fiato. Ma delle morti misteriose portano a credere che la colpa sia del videogioco stesso.

Anno sabbatico di posticipazione per Stay Alive (doveva uscire nei cinema tricolore la scorsa primavera), datogli senza nessun apparente motivo, se non per preparare una sciagurata kermesse pubblicitaria al fine di regalargli una fantomatica possibilità di rivalsa – in campo critico – in terra italica. Maledetti! Infatti, l’hype costringerà ancora una volta una buona fetta di pubblico, alfiere di un’ignoranza cinematografica che è oro che cola per le produzione teen horror, a seguire le scorribande virtuali dei quattro menteccati protagonisti.
Ma non c’è verso, né speranza. Perché Stay Alive, nella sua pochezza realizzativa e nel suo infimo progetto creativo, è quanto di peggio possa offrire il mercato orrorifico, un insulto a chi la materia sanguinolenta non la considera solo come un’accozzaglia di bei visini piangenti e stupide morti, ma anche costruzione narrativa, pathos e personaggi più spessi di un foglio di carta.
Ma questo, alla gente pagante, sembra non interessare, preferendo soluzioni povere di idee e di contenuti, messe in piedi senza sentimento (se non quello del facile guadagno), evidentemente con pura incoscienza (o menefreghismo) di quello che noi appassionati potremmo provare di fronte a questa immondizia.
Tutto, in Stay Alive, è già stato visto, immagazzinato, memorizzato e infine preso d’esempio come ciò che NON si deve mai fare, in qualsiasi campo artistico, dal cinema alla letteratura, passando ovviamente per i videogiochi, visto che vengono qui tirati in ballo.
Lo script fa scorrere una trama insipida, facendo perno su protagonisti veramente troppo stupidi, anche per permettersi di essere gli eroi di un film come questo, soffermandosi poi su eventi così scontati che sembra impossibile che nessuno si accorga del reale motivo che li crea.
Bell alla regia nulla aggiunge all’intreccio, così squallido che la noia sopraggiunge dopo i titoli di testa, per svanire poi quando arrivano quelli di coda, che almeno ti fan venire voglia di sorridere perché lo scempio è finalmente giunto al termine.
Da evitare, totalmente. Nemmeno i puristi del trash potranno trovare nell’opera di Bell fonti di divertimento e derisione, perché, anche in questo campo, è tutto già vecchio.

giovedì 26 aprile 2007

Doom

di John Shirley
232 pagine
Urania
4,10 €

Solo un battito di ciglia separa il deserto del Nevada dal deserto di Marte. Il portale: Olduvai, folgorante transito inter-dimensionale, retaggio di una enigmatica tecnologia aliena. Ma quando uno scienziato troppo temerario compie l’esperimento sbagliato, è l’inferno a scatenarsi nella remota stazione mariana. Toccherà a Sarge, Grimm, Kid e agli membri di una micidiale squadra di élite dei Marines spaziali scendere nell’abisso, affrontando in prima persona la battaglia dell’apocalisse.

John Shirley, indossata la pettorina mimetica, controllati i fucili al plasma, e fatto rifornimento di quante più munizioni possibili, è partito alla volta di Marte, nel tentativo di ammazzare anche lui, dopo John Carmack (il guru dell’industria videoludica) e Bartkowiak (un mestierante adrenalinico col pallino della cinepresa), i bizzarri mostri infernali che popolano gli scavi del pianeta rosso.
Il qui presente Doom è l’adattamento letterario dell’omonimo film uscito qualche tempo fa, a sua volta tratto (parecchio liberamente) da quel videogioco che, tanti anni orsono, ha segnato un’intera generazione di adoratori di pixel cubettosi.
John Shirley ha semplicemente sfogliato la sceneggiatura, copiato tali e quali i dialoghi, e ampliato leggermente il plot con un po’ di sana introspezione psicologica e un’interessante novità nella parte finale. Ovvio, quindi, che tutti coloro che hanno già visto le gesta del duo The Rock-Karl Urban in azione al cinema, troveranno nel suddetto romanzo solamente una noiosa rapina del proprio tempo libero. Per chi, invece, come il sottoscritto, si è scontrato con l’universo di Doom partendo dal libro e si è riservato poi la visione del film a lettura ultimata (la saga videoludica non conta, vista la totale estraneità in fatto di trama), o ancora non si è addentrato negli oscuri cunicoli marziani, vediamo di sviscerare l’operato di Shirley.
Lo scrittore americano è sicuramente dotato di un ritmo incalzante, le sue parole sono buoni esempi di intrattenimento serrato e adrenalinico, e visto quanto raccontato dalla trama (i soldati buoni contro i mostri cattivi), il suo stile ben si adatta alla situazione.
Purtroppo, tanto nel romanzo quanto nel film, permangono dei dubbi rilegati a una caratterizzazione dei protagonisti fin troppo derivativa (il soldato buono e coraggioso, quello sbruffone, quello odioso, quello silenzioso e forte, il novellino timido e impacciato, e via così). Shirley cerca di raggirare la banalità che li contraddistingue con alcuni excursus riguardanti il loro passato, ma questo poco aggiunge alla loro pochezza psicologica. Rimangono comunque dei protagonisti sufficientemente carismatici, e passare qualche ora in loro compagnia, nonostante la poca inventiva, sarà tutto sommato piacevole.
Un altro punto dolente riguarda lo svolgersi dell’intreccio, che sembra, a volte, dimenticarsi per strada intere porzioni di storia. Ne consegue un occasionale smarrimento, che non inficia assolutamente sulla comprensione della trama, ma che irrita per una mancanza di continuità e fluidità narrativa.
Ciò che resta, alla fine, è un discreto libricino fanta-horror, che non annoia ma nemmeno stupisce – e davvero non si capiscono le lodi tessute a Shirley nella postfazione, quasi a considerarlo il miglior scrittore di tutti i tempi, o qualcosa di simile. Però, almeno, è in grado di far divertire. E, a volte, non serve molto altro.

martedì 24 aprile 2007

The good shepeherd

Regia: Robert de Niro
Cast: Matt Damon, Angelina Jolie, John Turturro, William Hurt, Robert de Niro, Alec Baldwin
Sceneggiatura: Eric Roth
Durata: 167’
Produzione: USA
Anno: 2007

La vita di Edward Wilson, da giovane studente di poesia a membro fondatore della CIA: i doveri, l’amore, il dolore di un agente segreto nei confronti di se stesso e della sua famiglia.

De Niro e la macchina da presa: una storia iniziata tredici anni fa con Bronx, e che ora, trovato finalmente il giusto compromesso con lo sceneggiatore Eric Roth, può proseguire, nonostante il grande lasso di tempo lasciato passare.
The good shepherd è un affresco intricato e magniloquente che, attraverso lo sguardo di pietra di un inusuale Matt Damon, porta a una lettura senza retorica di un mondo cinico e doppiogiochista, quale quello dei servizi segreti. Edward Wilson sacrificherà la propria vita, gli amori e i cari, al mandato che si è impegnato a portare a termine. E la pellicola è un percorso calcolato sin nel minimo dettaglio, che esplora, seziona, analizza trent’anni della sua esistenza, dal primo tenero batticuore, passando per un burrascoso matrimonio riparatore, quindi via verso l’Inghilterra della Seconda Guerra Mondiale, e infine concludendo con il delicato periodo della Guerra Fredda e dell’ordigno cubano, sempre pronto a esplodere.
Il metodo scelto è un complicato susseguirsi di episodi, intrecciati su due linee temporali differenti (presente – il 1961 – e passato), portatori allo stesso tempo di fascino narrativo ma anche di un’antipatica confusione, vuoi per una eccessiva mole di informazioni che colpisce lo spettatore, o, più che altro, di una predilezione per l’immagine esplicativa preferita ai dialoghi, che lasciano ai soli occhi attenti la possibilità di comprendere fino in fondo l’ingarbugliato sviluppo della vicenda.
De Niro, in effetti, è attentissimo, fin troppo, nella definizione del particolare visivo. Nessun virtuosismo o sbrodolamento registico, sia chiaro, anzi, tecnica in abbondanza, ma lo spessore di cui è intriso The good shepherd fatica a venir fuori completamente attraverso una singola visione. E nemmeno l’alto minutaggio aiuta nel difficile compito della quadratura del cerchio. D’altro canto, lo script di Roth (lo si ricorda come la mente narrativa dietro Forrest Gump di Zemeckis e Munich di Spielberg) è pura goduria strutturale, almeno per lo spettatore esigente, vista l’infinita quantità di temi toccati, ora più superficialmente, ora con più cuore e passione, e il gioco a incastro, appagante, se non addirittura esaltante in specifici segmenti.
L’accoppiata De Niro-Roth, quindi, funziona a metà. Presi singolarmente dimostrano prelibatezze filmiche che strappano applausi, ma riuniti assieme, purtroppo, non riescono l’uno a far risaltare come si dovrebbe il lavoro dell’altro. Troppo precisa la regia di de Niro per la profondità della sceneggiatura, troppo strutturato l’intreccio di Roth per la direzione artistica, fin troppo legata ai soli sguardi interpretativi.
Il risultato è comunque una pellicola di grande magia narrativa che, nonostante una sorta di pesantezza di fondo dovuta alla macchinosità del tutto, sa catturare l’occhio impegnato dello spettatore pretenzioso. Questo grazie anche alla pregevolezza del titanico cast, con uno statuario Matt Damon, impassibile cuore di ghiaccio e personificazione dell’autorità, passando per il mestiere esorbitante di un sentito John Tourturro, la dolcezza e il sentimento di una bellissima Angelina Jolie, senza dimenticare i preziosi cammei di un invecchiatissimo Joe Pesci e dello stesso de Niro, che regala emozioni nonostante la piccola particina ritagliatosi.

sabato 21 aprile 2007

Alan Moore su Radiodue - prima parte

Alan Moore, l’eclettico autore dei masterpiece V per Vendetta, Watchmen e tanti altri fumetti (anche se mai come in questo tale termine appare quasi deleterio, nei confronti del guru inglese) che hanno fatto la storia dell’editoria disegnata.
In occasione della recente pubblicazione italiana de La voce del fuoco, un romanzo questa volta – uscita comunque non giustamente tributata dagli addetti ai lavori, relegandola più che altro a un passa parola in sordina, più che a una pubblicità vera e propria – Alan Moore si racconta ai microfoni di Radiodue, durante la trasmissione Tutti i colori del giallo, andata in onda oggi alle 13,00, e che concluderà il resoconto domani alle 13,30.

A sentir le sue stesse parole, si capisce come Moore sia molto più eccentrico di quanto narra la leggenda. Lui stesso si definisce talmente catturato dal suo lavoro, che non ha tempo libero da dedicare a se stesso, per permettersi una vacanza, o una semplice capatina dal barbiere per accorciare barba e capelli .
Durante la trasmissione (invero davvero breve, e con troppe soste musicali, per contenere appropriatamente tutto quello che si vorrebbe sapere sull’autore britannico), Moore espone interessanti valutazioni sul suo La voce del fuoco, spiegandone genesi, gestazione e significato. Poi, guardando al futuro, regala interessanti news su Gerusalemme (working title del nuovo romanzo in lavorazione, ambientato nella sua Northampton, e, più precisamente, nel quartiere in cui è nato) e su un saggio, scritto a quattro mani con Steve Moore, sulla magia, passione (e forse filosofia di vita) che non ha mai nascosto.
L’intervista scivola poi stupidamente su curiosità che profumano più di gossip che di relativa informazione letteraria (le leggende metropolitane che vedrebbero Moore come ricercato dalla CIA, come un odiatore di fanciulli, come talmente pigro da non uscire mai di casa) e addirittura, poi, si addentra in escursioni veramente ignobili e insulse, quando viene in qualche modo derisa la collezione di anelli di Moore, vista l’invidia che provocherebbe questa nei confronti di Ozzy Osbourne e Alice Cooper.

Si poteva fare meglio, sicuramente. Ma aspettiamo la seconda parte per poter dire se si è trattata di un’occasione sprecata o meno.