venerdì 4 maggio 2007

Il regno del sangue

di Simon Clark
560 pagine
Newton Compton Editori, 2006
9,90 €

Per Rick Kennedy è davvero un momento felice. Stanotte andrà a una festa memorabile, ci sarà suo fratello che non vede da anni e forse riuscirà anche a sedurre Kate, la ragazza di cui è innamorato. Nel tranquillo villaggio di Fairburn la sera è piacevolmente calda. Quando nel buio Rick crede di vedere una strana creatura dal volto grigio aggirarsi nel bosco e scrutarlo, pensa sia solo un'allucinazione, un incubo passeggero. Ma il risveglio sarà terribile. Il giorno seguente la città è invasa da migliaia di uomini e donne, scampati a un misterioso cataclisma che ha avuto luogo in tutta l'Inghilterra e non solo: la terra si riscalda, le città bruciano, l'acqua dei laghi ribolle. Sembra la fine del mondo e chi è riuscito a evitare l'orrore scatenato dalla natura è disposto a tutto pur di sfuggire all'ira dei misteriosi Demoni Grigi.

L’Apocalisse secondo Simon Clark (La città dei vampiri, Il lago dei vampiri, entrambi editi in Italia dalla stessa Newton Compton) sarà dovuta a un improvviso riscaldamento interno della Terra, al quale seguirà un’orgia di eruzioni vulcaniche e maremoti d’acqua bollente, che trasformeranno il suolo terrestre in un deserto di cenere e di false speranze.
Ma non solo.
Perché di mezzo ci sono anche i misteriosi Uomini Grigi, furiosi umanoidi palestrati, dagli occhi di magma fumante, che tifano per la distruzione incondizionata di tutto e di tutti. Non si sa da dove vengano né chi siano, ma la loro fame di violenza è già di per sé un notevole problema da risolvere, e il tempo per farsi altre paranoie mentali non è che abbondi.
C’è da dire che le parole di Clark sono capaci di catturare, nei primi capitoli. Vi è un vago sentore fanciullesco-adolescienziale, fatto di sogni e ormoni, che regala spensieratezza e curiosità. Alla titanica festa di Ben Cavallero, infatti, teatro delle presentazioni dei tre eroi del romanzo – i dongiovanni fratelli Kennedy e la dolce e sinuosa Kate – si respira veramente un profumo di giovane allegria e di amori prossimi alla fioritura. Merito anche dello zampino di un genuino sense of humor, più che altro nei dialoghi, semplice e benvoluto.
E anche quando entra in scena la fine del mondo, nel suo lento incedere, misterioso e singolare, la lettura strega e appassiona, inserendo addirittura qua e là inusuali spunti di riflessioni, azzeccati e graditi.
È solo quando l’immane catastrofe diventa routine, e ci si addentra nelle viscere dell’avventura che dovrebbe reggere il corpo della trama, che le cose precipitano vergognosamente. La scrittura, via via che scorrono le pagine, si fa sempre più elementare e priva di nervo, diventando addirittura irritante nelle ultime duecento pagine. Il tutto per colpa, primo, di un improvviso calo dell’effetto sorpresa e per un’inspiegabile voglia di descrivere ciò che accade sempre e solo con gli stessi termini; secondo, per una virata narrativa terribilmente improbabile (Simon Clark deve aver visto in loop continuo Ken il Guerriero, vista la strana e tamarra idea che ha dei senzatetto e dei reietti della società), che ha anche il coraggio di sfociare in un finale privo di rivali in quanto a ridicolo e inverosimiglianza.
Il critico che è in me mi dice di aggiungere pure delle numerose e lunghissime parti di romanzo in cui vengono narrate le prestazioni sessuali dei vari protagonisti, in un insostenibile e chilometrico susseguirsi di dialoghi del tipo “oooh, aaah, sììì”. Indecente, davvero. E, in tema di espressioni fumettistiche, segnalo un fiume inarrestabile di thud!, ouch!, e varie sconcezze narrative che fanno soltanto sorridere e scuotere la testa.
Altra cosa che fa arrabbiare è il continuo scambio di narratore, che, man mano che si arriva verso la fine del viaggio, diventa sempre più sgradevole e seccante, vista la sua evidentissima natura di basso espediente al fine di allungare il brodo.
Visto che voglio fare il cattivo, infine, bisogna dare atto ad Alessandro Pilo, il signor traduttore, di aver fatto un lavoro osceno e indecoroso, sbrodolando “d” eufoniche in continuazione, e tralasciando ripetizioni in ogni dove e in ogni quando.
Tutto questo è un peccato, perché se il romanzo fosse stato di un duecento pagine più breve, ne avrebbe sicuramente guadagnato. Il neo dell’estrema lunghezza (quasi seicento pagine, ma vista la grandezza dell’impaginazione, non esagero a dire che, comunemente parlando, potrebbero essere in realtà addirittura settecento), invece, si porta con sé, oltre a quanto detto sopra, una naturale perdita di interesse. L’azione si fa ripetitiva all’inverosimile, i personaggi si scarnificano delle loro indovinate caratterizzazioni dei primi capitoli, acquisendo invece comportamenti piatti e inspiegabili, e così, ahinoi, non si prova più alcun legame affettivo con loro.
Concedo solamente un pollice in su per l’oscuro artwork (anche se del tutto estraneo a quanto raccontato nella vicenda) e per il prezzo davvero stuzzicante, nonostante la mole di facciate.
Ignoro, senza tanti ripensamenti, la restante produzione letteraria di Simon Clark, e soprattutto fingo di non vedere le lusinghe che fanno bella mostra di sé nel retro copertina. So solo che Il regno del sangue è e rimane un mattone insipido e noioso, e tanto deve bastarvi per evitare un’inutile e cancerogena sottrazione di denaro.

giovedì 3 maggio 2007

Lost – A proposito della stagione due

Ciò che resta dei misteri della seconda tornata

L’isola più bizzarra che la geografia ricordi continua a sfornare punti di domanda. E se da una parte, tra i meandri della jungla e nelle pareti del bunker, qualche risposta viene a galla, nuovi enigmi firmano la loro presenza.
Lo sviluppo che prende piede con la stagione due di Lost è di quelli che la televisione non ha mai sfoggiato fino a ora in curricolo. La scoperta di cosa si cela dentro il bunker, l’arrivo di nuovi sopravvissuti al disastro aereo, la dipartita di uno dei personaggi più detestati della prima serie, uno scorcio di visione sulla realtà dei temutissimi Altri, sono elementi capaci di attanagliare lo spettatore voglioso di soluzioni.
I protagonisti poi cambiano faccia: l’antipatico Jin diventa eclettico e pimpante, Sayer accantona momentaneamente l’aria da sfacciato cazzone, e il carismatico Sayid viene accomodato in secondo piano.
Man mano che i giorni trascorrono, però, sull’isola cala presto una nebbia di stasi e immobilità narrativa. La virata crudele riguardante l’ex tossico Charlie (la più esemplare – già meglio con la personalità di Micheal) non viene infatti ricompensata da una sceneggiatura forte da resistere e sostenere simili asprezze di trama. Il tutto si trasforma in dialoghi che, per nascondere una scomoda miseria d’idee, tendono al filosofico, lasciando l’amaro in bocca. Se infatti i flashback si fanno via via sempre più costruiti e a incastro tra i vari protagonisti (tralasciando la banalità del passato di Mister Eko), l’azione sull’isola diventa noiosetta, negando ai fans qualsiasi spiraglio evolutivo (se non qualche apprezzata svolta, come la scoperta – o quasi – del rapimento di ai danni di Claire nella staginoe uno).
Per fortuna, nelle ultime otto-dieci puntate, con la comparsa del misterioso Harry, la serie riprende vigore e inventiva, in una sequenza spaventosa di colpi di scena e di nuovi rebus televisivi (con tanto di ovvio finale lasciato a metà) che, a questo punto, troveranno uno straccio di risposta soltanto nella terza manche (prossima alla conclusione negli States).
Restano sempre e comunque enormi interrogativi (il ruolo della Rousseau, la vera natura degli Altri, il motivo dei tanti bunker disseminati nell’isola, il progetto Dharma), ma tassello dopo tassello, il vasto puzzle inizia finalmente a comporsi. Basta avere pazienza.

martedì 1 maggio 2007

La morte dietro la porta

Regia: Bob Clark
Cast: John Marley, Lynn Carlin, Richard Backus, Henderson Forsythe, Anya Ormsby, Jane Daly
Durata: 88’
Produzione: USA/Canada/UK
Anno: 1975

Il giovane Andy è partito per il Vietnam, promettendo alla propria famiglia di tornare sano e salvo quanto prima. Purtroppo, una pallottola vagante infrange la parola data, e Andy soccombe nel campo di battaglia. Tuttavia, una notte, quello che bussa a casa Brooks, è proprio Andy.

Bob Clark, prima della virata porcellona-adolescenziale della serie Porkys, dell’anonimato assegnatogli dalla televisione e, purtroppo, della recente scomparsa in un incidente automobilistico, era un paladino del nostro genere preferito, capace di mettere in piedi nel ’74 quel Black Christmas, papà immortale di tutti gli slasher, che tante lezioni di cinema è stato in grado di dare.
Con il successivo La morte dietro la porta, invece, Clark cosparge la pellicola di un’atmosfera tragico-sentimentale che si respira adagio, in un silenzio morboso che sfocia sangue e sorrisi deviati soltanto nel finale. Tutto, in La morte dietro la porta, è votato a una ricerca quasi esasperata della componente drammatica e angosciosa, e lo stesso clima in cui si è immersi non concede mai spiragli di luce o di salvezza cinematografica. La lentezza impassibile di cui si fa portavoce la trama non lascia scampo, avvolgendo lo spettatore attento (giovinastri che vogliono tutto e subito via da qui!) in un miasma di sofferenza e disperazione.
La struttura narrativa verte quindi verso lunghe parti dialogate, profonde e ricche di particolari, che esplorano psicologie e caratteri – via via sempre più in frantumi – dei familiari di Andy, di fronte alla sua enigmatica ricomparsa e al suo preoccupante comportamento. E Clark è asfissiante nelle sue immagini fisse e in quei primi piani struggenti, anche se spesso si concede a classiche zoomate alla velocità della luce, tipicamente seventies styles, che stonano non poco con il contesto sepolcrale e opprimente – ma non si tratta che di difetti temporali, tranquillamente trascurabili.
Eccolo qui, l’orrore di una volta, che nulla ha da spartire con la frettolosa scarica ormonale della sezione horror odierna. Script, dialoghi, personaggi, critica sociale, su questi punti – oggigiorno quasi completamente trascurati – ci si concentrava tanto tempo fa, costruendo le pellicole atmosfera dopo atmosfera, e non tetta dopo tetta.
Soltanto nell’amaro epilogo, pregno di commozione e denuncia, la furia horror della pellicola si erge in tutta la sua carica violenta e disorientante, cogliendo di sorpresa per via di un’accelerazione inaspettata ma benvoluta, che sa colpire allo stomaco e agli occhi.
Tormenti e dolori sono ben portati alla luce da John Marley e soprattutto da Lynn Carlin, marito e moglie che vedono l’annichilente distruzione del proprio matrimonio sotto i colpi inferti dall’angosciante personaggio interpretato da Richard Backus. Ma forse la prova che più emerge spetta a Jane Daly, figura soltanto comprimaria, capace però di rischiarare con la sua felicità la pesantezza emotiva del lungometraggio.
Un plauso alla Gargoyle, che tra un mare di uscite di pura immondizia, riesce ogni tanto a indovinare qualche centro (di prossima uscita anche il già citato Black Christmas). E un sentito ringraziamento a Bob Clark, per un pezzo di storia cinematografica che, anche lui, ha contribuito a far nascere.

venerdì 27 aprile 2007

Stay alive

Regia: William Brent Bell
Cast: Jon Foster, Samaire Armstrong, Frankie Muniz, Sophia Bush, Jimmi Simpson, Adam Goldberg, Milo Ventimiglia, Jim Bishop
Sceneggiatura: William Brent Bell, Matthew Peterman
Durata: 85 minuti
Produzione: USA
Anno: 2006
Alcuni giovani ragazzi passano le proprie giornate on line, protagonisti virtuali di un videogame horror che mozza il fiato. Ma delle morti misteriose portano a credere che la colpa sia del videogioco stesso.

Anno sabbatico di posticipazione per Stay Alive (doveva uscire nei cinema tricolore la scorsa primavera), datogli senza nessun apparente motivo, se non per preparare una sciagurata kermesse pubblicitaria al fine di regalargli una fantomatica possibilità di rivalsa – in campo critico – in terra italica. Maledetti! Infatti, l’hype costringerà ancora una volta una buona fetta di pubblico, alfiere di un’ignoranza cinematografica che è oro che cola per le produzione teen horror, a seguire le scorribande virtuali dei quattro menteccati protagonisti.
Ma non c’è verso, né speranza. Perché Stay Alive, nella sua pochezza realizzativa e nel suo infimo progetto creativo, è quanto di peggio possa offrire il mercato orrorifico, un insulto a chi la materia sanguinolenta non la considera solo come un’accozzaglia di bei visini piangenti e stupide morti, ma anche costruzione narrativa, pathos e personaggi più spessi di un foglio di carta.
Ma questo, alla gente pagante, sembra non interessare, preferendo soluzioni povere di idee e di contenuti, messe in piedi senza sentimento (se non quello del facile guadagno), evidentemente con pura incoscienza (o menefreghismo) di quello che noi appassionati potremmo provare di fronte a questa immondizia.
Tutto, in Stay Alive, è già stato visto, immagazzinato, memorizzato e infine preso d’esempio come ciò che NON si deve mai fare, in qualsiasi campo artistico, dal cinema alla letteratura, passando ovviamente per i videogiochi, visto che vengono qui tirati in ballo.
Lo script fa scorrere una trama insipida, facendo perno su protagonisti veramente troppo stupidi, anche per permettersi di essere gli eroi di un film come questo, soffermandosi poi su eventi così scontati che sembra impossibile che nessuno si accorga del reale motivo che li crea.
Bell alla regia nulla aggiunge all’intreccio, così squallido che la noia sopraggiunge dopo i titoli di testa, per svanire poi quando arrivano quelli di coda, che almeno ti fan venire voglia di sorridere perché lo scempio è finalmente giunto al termine.
Da evitare, totalmente. Nemmeno i puristi del trash potranno trovare nell’opera di Bell fonti di divertimento e derisione, perché, anche in questo campo, è tutto già vecchio.

giovedì 26 aprile 2007

Doom

di John Shirley
232 pagine
Urania
4,10 €

Solo un battito di ciglia separa il deserto del Nevada dal deserto di Marte. Il portale: Olduvai, folgorante transito inter-dimensionale, retaggio di una enigmatica tecnologia aliena. Ma quando uno scienziato troppo temerario compie l’esperimento sbagliato, è l’inferno a scatenarsi nella remota stazione mariana. Toccherà a Sarge, Grimm, Kid e agli membri di una micidiale squadra di élite dei Marines spaziali scendere nell’abisso, affrontando in prima persona la battaglia dell’apocalisse.

John Shirley, indossata la pettorina mimetica, controllati i fucili al plasma, e fatto rifornimento di quante più munizioni possibili, è partito alla volta di Marte, nel tentativo di ammazzare anche lui, dopo John Carmack (il guru dell’industria videoludica) e Bartkowiak (un mestierante adrenalinico col pallino della cinepresa), i bizzarri mostri infernali che popolano gli scavi del pianeta rosso.
Il qui presente Doom è l’adattamento letterario dell’omonimo film uscito qualche tempo fa, a sua volta tratto (parecchio liberamente) da quel videogioco che, tanti anni orsono, ha segnato un’intera generazione di adoratori di pixel cubettosi.
John Shirley ha semplicemente sfogliato la sceneggiatura, copiato tali e quali i dialoghi, e ampliato leggermente il plot con un po’ di sana introspezione psicologica e un’interessante novità nella parte finale. Ovvio, quindi, che tutti coloro che hanno già visto le gesta del duo The Rock-Karl Urban in azione al cinema, troveranno nel suddetto romanzo solamente una noiosa rapina del proprio tempo libero. Per chi, invece, come il sottoscritto, si è scontrato con l’universo di Doom partendo dal libro e si è riservato poi la visione del film a lettura ultimata (la saga videoludica non conta, vista la totale estraneità in fatto di trama), o ancora non si è addentrato negli oscuri cunicoli marziani, vediamo di sviscerare l’operato di Shirley.
Lo scrittore americano è sicuramente dotato di un ritmo incalzante, le sue parole sono buoni esempi di intrattenimento serrato e adrenalinico, e visto quanto raccontato dalla trama (i soldati buoni contro i mostri cattivi), il suo stile ben si adatta alla situazione.
Purtroppo, tanto nel romanzo quanto nel film, permangono dei dubbi rilegati a una caratterizzazione dei protagonisti fin troppo derivativa (il soldato buono e coraggioso, quello sbruffone, quello odioso, quello silenzioso e forte, il novellino timido e impacciato, e via così). Shirley cerca di raggirare la banalità che li contraddistingue con alcuni excursus riguardanti il loro passato, ma questo poco aggiunge alla loro pochezza psicologica. Rimangono comunque dei protagonisti sufficientemente carismatici, e passare qualche ora in loro compagnia, nonostante la poca inventiva, sarà tutto sommato piacevole.
Un altro punto dolente riguarda lo svolgersi dell’intreccio, che sembra, a volte, dimenticarsi per strada intere porzioni di storia. Ne consegue un occasionale smarrimento, che non inficia assolutamente sulla comprensione della trama, ma che irrita per una mancanza di continuità e fluidità narrativa.
Ciò che resta, alla fine, è un discreto libricino fanta-horror, che non annoia ma nemmeno stupisce – e davvero non si capiscono le lodi tessute a Shirley nella postfazione, quasi a considerarlo il miglior scrittore di tutti i tempi, o qualcosa di simile. Però, almeno, è in grado di far divertire. E, a volte, non serve molto altro.

martedì 24 aprile 2007

The good shepeherd

Regia: Robert de Niro
Cast: Matt Damon, Angelina Jolie, John Turturro, William Hurt, Robert de Niro, Alec Baldwin
Sceneggiatura: Eric Roth
Durata: 167’
Produzione: USA
Anno: 2007

La vita di Edward Wilson, da giovane studente di poesia a membro fondatore della CIA: i doveri, l’amore, il dolore di un agente segreto nei confronti di se stesso e della sua famiglia.

De Niro e la macchina da presa: una storia iniziata tredici anni fa con Bronx, e che ora, trovato finalmente il giusto compromesso con lo sceneggiatore Eric Roth, può proseguire, nonostante il grande lasso di tempo lasciato passare.
The good shepherd è un affresco intricato e magniloquente che, attraverso lo sguardo di pietra di un inusuale Matt Damon, porta a una lettura senza retorica di un mondo cinico e doppiogiochista, quale quello dei servizi segreti. Edward Wilson sacrificherà la propria vita, gli amori e i cari, al mandato che si è impegnato a portare a termine. E la pellicola è un percorso calcolato sin nel minimo dettaglio, che esplora, seziona, analizza trent’anni della sua esistenza, dal primo tenero batticuore, passando per un burrascoso matrimonio riparatore, quindi via verso l’Inghilterra della Seconda Guerra Mondiale, e infine concludendo con il delicato periodo della Guerra Fredda e dell’ordigno cubano, sempre pronto a esplodere.
Il metodo scelto è un complicato susseguirsi di episodi, intrecciati su due linee temporali differenti (presente – il 1961 – e passato), portatori allo stesso tempo di fascino narrativo ma anche di un’antipatica confusione, vuoi per una eccessiva mole di informazioni che colpisce lo spettatore, o, più che altro, di una predilezione per l’immagine esplicativa preferita ai dialoghi, che lasciano ai soli occhi attenti la possibilità di comprendere fino in fondo l’ingarbugliato sviluppo della vicenda.
De Niro, in effetti, è attentissimo, fin troppo, nella definizione del particolare visivo. Nessun virtuosismo o sbrodolamento registico, sia chiaro, anzi, tecnica in abbondanza, ma lo spessore di cui è intriso The good shepherd fatica a venir fuori completamente attraverso una singola visione. E nemmeno l’alto minutaggio aiuta nel difficile compito della quadratura del cerchio. D’altro canto, lo script di Roth (lo si ricorda come la mente narrativa dietro Forrest Gump di Zemeckis e Munich di Spielberg) è pura goduria strutturale, almeno per lo spettatore esigente, vista l’infinita quantità di temi toccati, ora più superficialmente, ora con più cuore e passione, e il gioco a incastro, appagante, se non addirittura esaltante in specifici segmenti.
L’accoppiata De Niro-Roth, quindi, funziona a metà. Presi singolarmente dimostrano prelibatezze filmiche che strappano applausi, ma riuniti assieme, purtroppo, non riescono l’uno a far risaltare come si dovrebbe il lavoro dell’altro. Troppo precisa la regia di de Niro per la profondità della sceneggiatura, troppo strutturato l’intreccio di Roth per la direzione artistica, fin troppo legata ai soli sguardi interpretativi.
Il risultato è comunque una pellicola di grande magia narrativa che, nonostante una sorta di pesantezza di fondo dovuta alla macchinosità del tutto, sa catturare l’occhio impegnato dello spettatore pretenzioso. Questo grazie anche alla pregevolezza del titanico cast, con uno statuario Matt Damon, impassibile cuore di ghiaccio e personificazione dell’autorità, passando per il mestiere esorbitante di un sentito John Tourturro, la dolcezza e il sentimento di una bellissima Angelina Jolie, senza dimenticare i preziosi cammei di un invecchiatissimo Joe Pesci e dello stesso de Niro, che regala emozioni nonostante la piccola particina ritagliatosi.

sabato 21 aprile 2007

Alan Moore su Radiodue - prima parte

Alan Moore, l’eclettico autore dei masterpiece V per Vendetta, Watchmen e tanti altri fumetti (anche se mai come in questo tale termine appare quasi deleterio, nei confronti del guru inglese) che hanno fatto la storia dell’editoria disegnata.
In occasione della recente pubblicazione italiana de La voce del fuoco, un romanzo questa volta – uscita comunque non giustamente tributata dagli addetti ai lavori, relegandola più che altro a un passa parola in sordina, più che a una pubblicità vera e propria – Alan Moore si racconta ai microfoni di Radiodue, durante la trasmissione Tutti i colori del giallo, andata in onda oggi alle 13,00, e che concluderà il resoconto domani alle 13,30.

A sentir le sue stesse parole, si capisce come Moore sia molto più eccentrico di quanto narra la leggenda. Lui stesso si definisce talmente catturato dal suo lavoro, che non ha tempo libero da dedicare a se stesso, per permettersi una vacanza, o una semplice capatina dal barbiere per accorciare barba e capelli .
Durante la trasmissione (invero davvero breve, e con troppe soste musicali, per contenere appropriatamente tutto quello che si vorrebbe sapere sull’autore britannico), Moore espone interessanti valutazioni sul suo La voce del fuoco, spiegandone genesi, gestazione e significato. Poi, guardando al futuro, regala interessanti news su Gerusalemme (working title del nuovo romanzo in lavorazione, ambientato nella sua Northampton, e, più precisamente, nel quartiere in cui è nato) e su un saggio, scritto a quattro mani con Steve Moore, sulla magia, passione (e forse filosofia di vita) che non ha mai nascosto.
L’intervista scivola poi stupidamente su curiosità che profumano più di gossip che di relativa informazione letteraria (le leggende metropolitane che vedrebbero Moore come ricercato dalla CIA, come un odiatore di fanciulli, come talmente pigro da non uscire mai di casa) e addirittura, poi, si addentra in escursioni veramente ignobili e insulse, quando viene in qualche modo derisa la collezione di anelli di Moore, vista l’invidia che provocherebbe questa nei confronti di Ozzy Osbourne e Alice Cooper.

Si poteva fare meglio, sicuramente. Ma aspettiamo la seconda parte per poter dire se si è trattata di un’occasione sprecata o meno.

giovedì 19 aprile 2007

Dead Meat

Regia: Conor McMahon

Cast: Marian Araujo, David Muyllaert, Eoin Whelan, David Ryan, Amy Redmond

Sceneggiatura: Conor McMahon

Durata: 78’

Produzione: Irlanda

Anno: 2004



In seguito a un’epidemia causata da un ceppo particolarmente brutale di mucca pazza, i bovini di alcune cittadine irlandesi attaccano i loro allevatori e li trasformano in morti viventi. Helena, una turista spagnola, e Desmond, il becchino locale, incontratisi per caso, cercheranno di fuggire assieme dalla minaccia, armati di un badile, tacchi a spillo, e tanta speranza.


Cerca e cerca, ecco che il gioiellino lo si trova nuovamente in Europa. È in questa parte di mondo che l’horror sta a poco a poco risalendo sul trono che gli spetta, al di là delle megaproduzioni hollywoodiane – che, film dopo l’altro, non fanno altro colpire (e affondare) il nostro genere preferito. The descent, Alta tensione, Shaun of the dead, questi e altri i cavalieri che guidano la riscossa del terrore su celluloide. E benché Dead Meat non possa essere raggruppato assieme ai suddetti titoli – nel suo sangue scorrono fieramente enormi porzioni di amatorialità – bisogna dare atto a Conor McMahon che, col suo omaggio a papà Romero, sa regalare un’ora e un quarto di brillanti soluzioni grand guignolesche e ingegnose trovate, da salutare col più ampio dei sorrisi.

Al suo primo film, infatti, il giovane regista fa centro. Non tanto per una trama che non fa alcun mistero della sua natura citazionista, ma per un notevole bagaglio di fresche novità, sfavillanti sviluppi registici, e un crescendo d’orrore e budella che sfocia in un epilogo amaro e doloroso.

E quindi si può sorvolare su un casting – ahimè – non particolarmente felice, che all’amorevole e avvenente Marian Araujo affianca un David Muyllaert, eroe comprimario fin troppo statico, con quel classico palo su per il sedere che impedisce la sbocciatura a tanti, troppi giovani attori. Ma anche gli altri mestieranti, vuoi per l’inesperienza, vuoi per l’effettiva mancanza di talento, offrono prove opache per gran parte del film, risollevandosi solo in qualche occasione (il sorprendente finale, vera e propria epopea dove la pellicola offre il meglio di sé, in qualsiasi reparto)

Così come si può lasciar correre su certi punti bui di una sceneggiatura semplice e scorrevole, quali un comportamento un po’ troppo freddo dei protagonisti una volta venuti a conoscenza della minaccia che dovranno affrontare, e di un certo uso degli zombi come tappabuchi per allungare un po’ il già povero minutaggio.

E, sicuramente, si può chiudere un occhio anche su un make-up non particolarmente raggiante – ma che fa il suo dovere, vista l’abbondanza e la creatività di un reparto gore e visceristico, che schifa e incuriosisce.

Ci sono difetti, vero. Tanti. Ma in fondo, in un’opera prima, così sincera e onesta, così vera e sentita, è davvero irresistibile la tentazione di elogiarla per il suo carico di bellezza sanguinolenta e fregarsene dei buchi e delle cadute di tono. Perché Conor McMahon ha stoffa da vendere, e riesce a sopperire all’elementarità del suo script con una regia che sa dar vita ad autentici sprazzi di genio. È il caso del travolgente inizio mozzafiato e della relativa uccisione del primo morto vivente (azzardo ad affermare che sia la più originale del cinema zombesco tutto). O dell’assalto di una mucca resuscitata, che sprigiona puri brividi e tensione. Oppure ancora dell’apocalittico finale, con tanto di atmosfere sinistre e goticheggianti, create per mano di un castello sullo sfondo, l’aiuto della luna piena e di una semplice torcia artigianale, elementi che funzionano mille volte meglio di qualsivoglia mitragliatrice falciazombi.

Aggiungo poi una colonna sonora minimalista, ma che sa sfociare in inquietanti escursioni a suon di viole e violoncelli, fulgido esempio di come sia possibile realizzare un’atmosfera opprimente e tenebrosa con pochi mezzi (e poche note) a disposizione.

È sulla base di queste invenzioni che bisogna valutare il primordiale modo di intendere l’horror. È su persone piene di talento ma anche di grata devozione e umiltà come Conor McMahon che si dive puntare. È su film come Dead Meat, che fa della spontaneità la sua carta migliore, che si è obbligati a scommettere. Perché è questo l’horror che vogliamo.



Recensione originariamente pubblicata su Scheletri.com

martedì 17 aprile 2007

Rock Hard #54

Succoso numero di Rock Hard, quello di Aprile, che propone interviste (lunghissime, come da tradizione) ai signori del doom Black Sabbath, Labyrinth, Porcupine Tree, Dark Tranquillity, Dimmu Borgir, Machine Head, Finntroll, After Forever, e molti, molti altri, cercando di sviscera succose novità sui nuovi lavori in arrivo
Nello spazio dedicato alle recensioni, fioccano le lodi a Fiction, In sorte diaboli, dei Dimmu Borgir, e Fear of a blank planet, dei Porcupine Tree, mentre si becca un’inaspettata bocciatura il nuovo Gods of war, dei Manowar. E poi, ancora, Scarve, After Forever, Annihilator, Finntroll, Ensiferum, Joe Lynn Turner, Marillion, Mayhem (il nuovo Ordo ad Chao, con il ritorno di Attila Csihar alla voce), e tante altre revisioni che riempiono le venticinque pagine dedicate ai nuovi dischi in uscita.
Come sempre, Rock Hard incarna la perfezione grafica, con ampio spazio dedicato al reparto fotografico e visivo, ma sempre accompagnato da articoli lunghi e dettagliati, magari a volte fin troppo informali (la professionalità – che non disdegna la goliardia – di un Metal Maniac in sede di intervista è ancora lontana), ma che si leggono con vero piacere.

Nel cd allegato, trovano posto: Machine Head, W.A.S.P, Destruction, Porcupine Tree, Marduk, Naglfar, Rose Tatoo, Disguise, i sorprendenti Oceans of Sadness, i notevoli emo screamers Ophydian, e altri adepti del sanguinoso verbo dell’heavy metal.

lunedì 16 aprile 2007

Slither

Regia: James Gunn
Cast: Nathan Fillion, Elizabeth Banks, Michael Rooker, Gregg Henry, Brenda James
Sceneggiatura: James Gunn
Produzione: USA
Anno: 2006
Durata: 90’

Un meteorite proveniente dallo spazio più profondo cade sulla cittadina di Wheelsy. È lo sfortunato Grant Grant il primo a vederlo, e soprattutto a fare la conoscenza con quello che si cela dentro il sasso spaziale, visto che, dopo aver punto l’uomo, la cosa aliena lo trasforma poco a poco in un deforme mostro tentacolare. È quindi tempo di attuare il piano per la conquista della Terra. Contagiata quella sgualdrina di Brenda, Grant la fa diventare una sorta di gigantesco utero per una miriade di lumache viscide e sicuramente poco amichevoli. A loro volta, le lumache – che evidentemente sono nate per un motivo tutt’altro che evoluzionistico – infetteranno uno dietro l’altro tutti gli abitanti di Wheelsy, mutandoli in stupidi zombi.
Toccherà all’ingenuo capitano di polizia Bill Pardy e alla moglie di Grant, Starla, cercare di fermare l’invasione aliena. Con risultati molto più comici del previsto.

Pile e pile di recensioni entusiastiche, critiche unanimemente positive, commenti euforici, che tessono solo ed esclusivamente lodi per l’esordio dietro la camera da presa di James Gunn. Hanno ragione? Certo, Gunn ha stoffa, si vede distante un chilometro, e benché Slither (nella sua irresistibile verve comica e sanguinolenta) non sia altro che un sentito omaggio ai b-movie che andavano per la maggiore tanto tempo fa, le carte in regola per diventare un cult le ha tutte.
James Gunn, dalla sua discreta esperienza come sceneggiatore (al servizio di sua maestà Lloyd Kaufman, giusto per fare un nome), è riuscito a riunire solamente il meglio del meglio della sua produzione, evitando sbrodolamenti e pecche varie che comunque ci si può sempre aspettare da un’opera prima. Dallo script di Tromeo & Juliet eredita l’ironia e le frequenti virate splatter della pellicola, dai due Scooby Doo una simpatica atmosfera horrorifica, mai però troppo paurosa, mentre, dal remake de L’alba dei morti viventi, l’azione frenetica e veloce (lasciando per fortuna a casa eccessivi sprofondamenti psicologici nei protagonisti e certe lacune strutturali che non facevano scorrere poi così benissimo lo pseudo remake del capolavoro romeriano).
Questo perché Slither, in definitiva, è un film simpatico. Non una horror-comedy tout court (non ci sono poi tanti siparietti comici), né tanto meno un horror – inteso come tale – venato di ironia (la componete spaventosa è praticamente assente). Slither non è Shaun of the dead. Slither, semplicemente, è un film simpatico. Merito dell’atmosfera goliardica e spensierata, dei comportamenti sì buffi, ma comunque grottescamente realistici dei protagonisti, e di mostri mai troppo terrificanti – che quasi sembra si divertano pure loro.
Slither in fondo è un film onesto, un inchino e un ringraziamento al cinema horror di una volta, quello realizzato con barattoli di latta, costumi di gommapiuma, e tanta buona volontà. Slither è, fondamentalmente, frutto di una persona che ama l’horror. E questo pensiero funziona meglio di tante altre parole usate a sproposito.
James Gunn, nel doppio ruolo di sceneggiatore e regista, si presenta in formissima, dando vita alla sua creatura più riuscita, semplice e derivativa, quello che volete, ma tremendamente sentita. Script sincero, divertente, che scorre con buona maestria da cima a fondo; regia notevole, che si caratterizza anche per un paio di trovate davvero esilaranti (il prologo, eccezionale per il modo in cui prende in giro un certo modo di fare horror).
Ben voluta la presenza piuttosto insistita di sequenze disgustose e ricche di frattaglie, che stupisce per via del target a cui probabilmente è indirizzata la qui presente pellicola, ma non si dice mai di no a una bella dose di splatter.
Il cast spicca per la presenza di Michael Rooker (Henry – Pioggia di sangue), ridicolo e ingenuamente bastardo uomo innamorato, sia nelle consuete vesti umane, sia in quelle gommose e tentacolari dell’ibrido alieno. Veramente squisita la prova di Nathan Fillion, goffo capitano di polizia, dalla battuta facile e dell’altrettanto facile comportamento strampalato. Bellissima infine Elizabeth Banks: forse merita più elogi per le sue qualità di donna che per quelle recitative, ma in fondo ben si amalgama col resto degli attori.
Slither è – e penso rimarrà per un bel po’ – uno dei migliori esempi di cinema. Punto e basta. Al di là dell’horror, dei mostri, del sangue e della violenza, Slither trasuda passione e devozione da ogni millimetro di pellicola. Ed è così che il cinema dovrebbe essere.

domenica 15 aprile 2007

Dark Tranquillity - Uno sguardo al passato, seconda parte

Projector (1999 – Century Media)
Passaggio di etichetta e innesto di un nuovo membro, il tastierista Martin Brändström, electro-man estraneo alla scena metal (Martin Henriksson, inoltre, è stato rimpiazzato al basso da Micheal Niklasson dopo essere passato dal quattro corde alle chitarre per la defezione di Fredrik Johansson).
Il sound forgiato dal sestetto fresco fresco di formazione è ora più lineare e diretto, dalle tinte dark, figlio di un buon equilibrio tra mid tempos d’effetto e tappeti d’elettronica che creano scenari inusuali per l’universo darktranquillitiano. Esclusione totale quindi di blast beats, doppie casse e costruzioni complesse e arzigolate, il tutto in favore di una maggiore ricerca della forma canzone, e, forse, di un progetto atto a svecchiare e rendere più moderna la propria proposta musicale. Anche il growl di Stanne viene ora spesso accompagnato da splendide parte vocali pulite, sintomo di una voglia di provare a cambiare direzione.
Ne escono canzoni sicuramente straordinarie (Freecard, Therein, l’electro-ballad Day to end), ma si sente il bisogno di un rodaggio più forte e sicuro, che possa permettere alla band svedese di incanalarsi in una nuova via melodica da seguire.


Haven (2000 – Century Media)
Trovato un buon gioco tra le schitarrate vagamente moderne e le tastiere futuristiche, i Dark Tranquillity correggono i difetti di Projector, abbreviando i pezzi (solo la conclusiva At loss for words supera i cinque minuti) e rendendoli più semplici, immediati e aggressivi (Feast of Burden, Indifferent suns), non disdegnando comunque refrain accattivanti che catturano subito l’ascoltatore (la trascinante The wonders at your feet).
Un’ottima prova, dove l’elettronica gioca sì un ruolo primario nel sound della band, ma è ora implementata con maggiore capacità, grazie a una parte strumentale strettamente metallica più ispirata e meno tentennante.


Damage Done (2002 – Century Media)
Finalmente i Dark Tranquillity appaiono sicuri e decisi sulla direzione da prendere: riff di stampo thrash, vitaminizzato da pepatissime iniezioni melodiche, velocità martellante, ritorno di prepotenza del growl come unico stile vocale, e piacevoli ricami elettronici in sottofondo, il tutto intervallato da distensivi arpeggi che smorzano il caos, per dare vita a brani brevi e violenti, che sanno colpire e lasciare il segno, alternati a mid tempo melodici e accattivanti, fatti apposta per stamparsi in testa.
Final resistance, Monochromatic stains, The treason wall sono i superlativi manifesti del nuovo corso della band svedese, grazie ai loro riff trascinanti, che segneranno una generazione (e soprattutto una precisa scena musicale, che verrà presto affossata da miriadi di gruppi clone).
Fondamentale.


Character (2005 – Century Media)
Trovata la vena d’oro e il successo planetario, i Dark Tranquillity decidono di non rischiare troppo, dando in pasto al pubblico un Damage Done – parte seconda, che potrà accontentare i nuovi fans acquisiti, ma che sicuramente colpisce al cuore per il mancato gradino evolutivo che ha sempre accompagnato la band svedese a ogni sua release.
Non un disco non riuscito, sia chiaro, al suo interno convivono splendidi pezzi (The new build, Lost to apathy, My negation), ma ogni riff, ogni melodia, ogni linea vocale deriva dal disco che lo ha preceduto, lasciando così, nonostante una ritrovata vena strutturalmente più arzigolata, un vago sentore di malessere. I Dark Tranquillity copiano se stessi, e questo non può che far male.
E così si arriva a noi, e a quel Fiction che a giorni solcherà gli scaffali di tutto il mondo (a parte quelli virtuali, dove surfers senz’anima arraffano anche le briciole). Non mi resta che rimandarvi alla recensione, che a breve farà il suo arrivo nel bunker.

giovedì 12 aprile 2007

Dark Tranquillity - Uno sguardo al passato, prima parte

In attesa dell’imminente uscita del nuovo album dei melodic death gods Dark Tranquillity, Fiction (ancora otto lunghi, polverosi giorni ci separano dal 20 Aprile), che ci mostrerà se la band svedese ha continuato a posizionarsi sulle coordinate dei dischi fotocopia Damage Done-Character, o se si è aperta a benvolute innovazioni, ho preparato una breve carrellata, divisa in due parti, dei loro lavori precedenti (mi soffermo sugli album, tralasciando i vari EP dati in pasto al grande pubblico).


Skydancer (1993 – Spinefarm)
Tempi velocissimi, cascate di melodie e riff armonici, suonati con una perizia degna del più complesso combo progressive, e poi ancora controtempi, cambi di ritmo, strutture impazzite, contorte, lunghe e complesse.
L’esordio dei Dark Tranquillity fa sua la lezione di velocità intransigente del death svedese (le schegge degli At The Gates in prima fila), genere che la band contribuirà a plasmare attraverso la propria musica (assieme agli stessi At The Gates, In Flames e, successivamente, in prossimità di una sterzata commerciale di una certa scena estrema, anche ai Soilwork), accostandolo a una visione progressiva e cerebrale della musica che li che porta a creare canzoni tortuose e complicate.
Nonostante un buon respiro e la freschezza generata (Nightfal by the shore of timel, A bolt of blazing gold, Shadow duet), si denota però una voglia di strafare che, a tratti, rende i brani così intricati che non lasciano il segno nemmeno dopo svariati ascolti.
C’è solo bisogno di maturità e di maggiore coesione strumentale, qualità che arriveranno di lì a poco.
Curiosità: alle vocals strozzate appare Anders Friden, oggi rasta-frontman dei cugini In Flames, mentre Mikael Stanne all’epoca era proprio il cantante dei parenti svedesi.


The Gallery (1995 – Osmose)
Album simbolo di un’intera scena musicale, nonché esempio e punto di partenza per eserciti inferociti di deathsters scandinavi e non solo. L’atmosfera che si respira è simile a quella del predecessore Skydancer, ma ora i brani sono più ragionati e hanno un loro filo conduttore, nonostante non sia stato sacrificato niente in termini di complessità strutturale.
Punish my heaven e The dividing line sono modelli di killer song, che fanno convivere al loro interno, con rara maestria, melodie fantasiose, morbidi arpeggi e drumming tentacolare. The Gallery e Lethe mostrano invece il lato più romantico e malinconico degli svedesi, ricche come sono di lunghe parti arpeggiate dal sapore triste e nostalgico.
Ineccepibile la qualità strumentale del gruppo, che dà un grandissimo spazio al suono del basso, di solito posto nelle retrovie, ma qui valorizzato da linee melodiche creative e che ben seguono le intricate evoluzioni chitarristiche.
Stanne, alle vocals, è capace di variare con abilità il suo ringhio mefistofelico, rendendolo vivo e ricco di diverse sfumature sentimentali.
I Dark Tranquillity lasciano il segno. Una pietra miliare nella storia della musica, e una classe compositiva che, purtroppo, non saranno mai più in grado di raggiungere.


The Mind’s Eye (1997 – Osmose)
Accantonate per certi versi le melodie dei precedenti album, in favore di una maggiore incisività e durezza del sound, i Dark Tranquillity ritornano sulle scene con un disco veloce e martellante, più lineare e diretto, figlio di un’idea musicale ora più vicina al thrash che al prog.
Prendono così vita canzoni splendide (Dreamlore Degenerate; Hedow; Scythe, Rage and Roses), che fanno della rapidità d’esecuzione e di un riffing serratissimo il loro punto di forza, tenendo comunque sempre presente un’atmosfera melodica, che fa parte del DNA del gruppo. Questi buoni esempi sono affiancati però da altri brani di minor qualità, affossati da ritmiche a volte troppe complesse e ingarbugliate, e non più costruite così elegantemente come in passato, che fanno perdere parecchio in termini di genuinità.
Si tratta sicuramente di album di buon livello, che dimostra la continua voglia evoluzionistica della band, ma ci troviamo in prossimità di un mutamento vero e proprio che inizierà soltanto con il successivo Projector.

martedì 10 aprile 2007

Labyrinth - 6 days to nowhere

Vaporizzato qualsiasi riferimento al power casereccio, che ancora faceva capolino qua e là nel precedente Freeman, i Labyrinth si riaffacciano sul mefistofelico mercato musicale con un disco di semplice, genuino rock metallizzato, perfetta sintesi dell’evoluzione intrapresa con l’omonimo album del dopo Olaf Thorsen, e continuata poi nel recente e già citato Freeman.
La canzoni sono ora figlie dirette di una linearità strutturale che cerca il ritornello accattivante (There is a way, What, Rusty nail), risultando comunque convincenti grazie a un drumming sempre fantasioso di Mattia Stancioiu, e a un ricamo tastierstico di De Paoli marginale ma assai prezioso – nonostante si senta la mancanza delle originali scorribande sui tasti d’avorio dei precedenti platter.
Tuttavia, il songwriting si permette di abbracciare una certa filosofia progheggiante, sempre presente nella band italiana, che sa spezzare le canzoni e inserire così tenui passaggi arpeggiati e delicate melodie (Crossroads, Mother Earth), oppure improvvise fughe in doppia cassa (Just one day), che richiamano un’impronta musicale a questo punto scomparsa.
Ma nonostante uno sviluppo artistico ormai maturo, i Labyrinth si concedono una sperimentazione vagamente estrema (la meravigliosa Lost – gioiello del disco – e per certi versi la non del tutto riuscita Wolves’n’lambs) che fa suo il death scandinavo, con tanto di blast beats, riff thrashy, serrati e dall’attinenza melodica, e timidi growl che spuntano durante il bridge.
Curiosa la cover di Come Togheter, ben realizzata e che sfrutta un suntuoso crescendo rockeggiante, ma appare un po’ fuori posto dalla linea stilistica scelta per l’intero ellepi. Viceversa, Piece of time, rivisitazione vitaminizzata del classico appartenente all’era No limits, si dimostra veloce ed efficace, solare e canticchiabile.
Niente da dire sulla prestazione vocale di Roberto Tiranti (che si cimenta anche con il basso, con risultati che difficilmente si possono valutare, a causa di una produzione – comunque ottimale – che lo nasconde totalmente), ugola caldissima posta come baluardo della formazione italiana.
È necessario però sottolineare un’eccessiva lunghezza (quasi un’ora), riscontrando nelle quattordici canzoni presenti un malessere frutto di una certa ripetitività e di poco mordente, soprattutto man mano che ci si avvicina alla conclusione (Coldness, Out of control, l’insipida ballad Smoke and dreams), colpa anche di un guitar work che, nei pezzi segnalati e in qualche altra occasione, si fa fin troppo derivativo e scontato.
Sicuramente, con qualche brano in meno e un pizzico di maggiore incisività, 6 days to nowhere avrebbe potuto forgiarsi del titolo di capolavoro, o qualcosa di simile. Per adesso, è una meritevole conferma della classe e dell’onesta musicale del combo italiano.

V2 Music
2007

1. Crossroads (4:03)
2. There is a way (3:36)
3. Lost (4:24)
4. Mother Earth (6:08)
5. Waiting tomorrow (3:35)
6. Come togheter (4:00)
7. Just one day (3:54)
8. What (4:15)
9. Coldness (3:49)
10. Rusty nail (3:19)
11. Out of control (3:46)
12. Wolves’n’lambs (4:53)
13. Smoke and dreams (4:37)
14. Piece of time (2:50)

lunedì 9 aprile 2007

Candyman - Terrore dietro lo specchio

Vista la presenza della pellicola di Bernard Rose in edicola, allegata a Horror Mania di Aprile, ho preparato una veloce recensione, per invogliare all’acquisto del suddetto film chi ancora fosse titubante di incrociare lo sguardo uncinato di Candyman. Guai a voi se mancate l’occasione, marrani, vi perdereste un horror che, coi tempi che corrono, ci sogniamo di avere.


Regia: Bernard Rose
Cast: Virginia Madsen, Tony Todd, Xander Berkley, Kasi Lemmons
Sceneggiatura: Bernard Rose (da un racconto di Clive Barker)
Produttori: Steve Golin, Sigurjon Sighvatsson, Alan Poul
Produttore Esecutivo: Clive Barker
Musiche: Philip Glass
Durata: 95 minuit
Produzione: Usa
Anno: 1992

La studentessa Helen Lyle viene a conoscenza di una leggenda locale terrificante, quella di Candyman, un mostruoso serial killer munito di uncino, che appare quando pronunci il suo nome cinque volte davanti a uno specchio. Helen compie così delle ricerche, per la propria tesi di laurea, ripercorrendo i luoghi in cui si dice che Candyman sia apparso. Ma dopo aver ignorato gli avvertimenti degli abitanti del luogo, assiste a una catena di delitti raccapriccianti. È mai possibile che la leggenda sia vera?

I sei Libri di sangue, primi rigurgiti letterari del visionario signore delle illusioni Clive Barker, sono un punto fermo del pantheon orrorifico, un inarrivabile santuario sanguinario della narrativa fantastica. Da uno dei racconti minori presenti nell’antologia numero cinque (Visions, in Italia), Il proibito, Bernard Rose ha preso la sua camera da presa, inzuppandola di sangue e inchiostro per trasformare le scorribande letterarie dello scrittore inglese in immagini dall’indubbio fascino.
Diamo atto al regista di aver steso una sceneggiatura abbastanza fedele, ma anche tutto sommato valida dal punto di vista strutturale-cinematografico, con buoni momenti atmosferici e richiami onirici ben dosati. Tuttavia, inevitabilmente, lo script prende le sue facile sbandate, riscontrabili in dialoghi a volte poco incisivi e in escursioni involontariamente ridicole che fanno venire il latte alle ginocchia.
Poco male.
Gli errori vengono soppiantati da una regia semplice ma incisiva, che ha dalla sua momenti di grande pregio visivo, grazie a divagazioni deliranti che ben avviluppano i sentimenti filmici dei due interpreti principali, che tentano l’uno di rubare lo schermo all’altra.
E si solleva in alto un enorme pollice verso il fattore gore, che noi maniaci degenerati tanto apprezziamo. In Candyman, infatti, il reparto emoglobinico è abbondante e appetitoso, con vastissimi e inaspettati spargimenti di sangue.
In questo universo morboso, ricco di sottili richiami sociali ma anche di genuini slanci soprannaturali, la bellissima Virginia Madsen offre una prova di classe, sentita ed emozionante, che raggiunge picchi di delicata poesia nelle sequenze oniriche, quando una lacrima densa di significati le scorre lungo la guancia. Tony Todd, invece, firma la nascita di un nuovo mito dell’horror, il colto difensore degli oppressi, il deviato Capitan Uncino della filmografia grondante budella, interpretando in maniera elegante e professionale il tormentato Candyman. Piuttosto incolore il resto del cast, nonostante la buona mimica facciale di un Xander Berkley che oggi, a distanza di quindici anni, non sembra essere invecchiato di un solo giorno.
Da segnalare, ma con tanto di squilli di trombe, meritatissimi, la straordinaria colonna sonora a cura di Philip Glass, un masterpiece musicale, costruita solo su piano, organo e voci corali, che si incastrano in un sublime vortice di inquietudine nel tema portante, una delle vette sonore non solo del cinema più estremo, ma dell’intero mondo della celluloide.
Tolto qualche punto morto o risibile, che poteva facilmente essere cancellato in fase di post produzione (l’accidentalmente comica scena dell’imbiancatura, una digressione psicologica dei protagonisti a volte una tantino confusa e incerta), Rose ha realizzato una buona trasposizione di un discreto racconto, e, oggigiorno, sarebbe buona cosa che i giovani cineasti che tentano di spopolare, dessero un’occhiata alla spontaneità angosciante dell’horror di qualche anno fa, Candyman compreso.

sabato 7 aprile 2007

L'estate della paura


di Dan Simmons
644 pagine
Gargoyle Books, 2006 (I^ edizione 1994)
17,50 €

1960: è tempo di festa a Elm Haven, piccola cittadina dell’Illinois. È appena arrivata l’estate, e con essa è finalmente finita la scuola. Cinque ragazzi di dodici anni si apprestano quindi sorridenti a vivere spensieratamente i tre mesi di caldo, sole e giochi che li aspettano. Ma in realtà, ad attenderli c’è anche qualcos’altro. Un’entità mostruosa che si sta risvegliando a poco a poco, una minaccia che ha a che fare con la Old Central, l‘immensa scuola appena chiusa, con un terribile evento accaduto sessant’anni prima, e con una leggenda che è più reale di quanto si possa credere.

La sempre più sorprendente Gargoyle Books ristampa, con una nuova grafica e una nuova traduzione, più attenta e letterale, il pluriosannato romanzo di Dan Simons – una delle poche incursione in territorio orrorifico da parte del maestro di Peoria – precedentemente pubblicato da Mondatori negli anni ’90 (le cui copie, ormai introvabili, si aggirano per le aste a prezzi altisonanti).
La prima impressione è quella di trovarsi nei territori del Re, Stephen King, e della sua opera più acclamata, IT. In effetti, gli elementi sono praticamente gli stessi del capolavoro kinghiano: un gruppo di adolescenti che crescono, il male che risorge ciclicamente, e la lotta contro l’ignoto come passaggio dall’essere bambini all’età adulta.
Ma Simmons non è King, e al di là di una differente struttura narrativa, lo si capisce subito da uno stile di scrittura più ampolloso, votato alla descrizione del più insignificante particolare, e soprattutto dalla mancanza di una sorta di disincantata ironia che pervadeva il romanzo del Re.
Simmons in effetti può essere ostico, più che altro nel principio del romanzo, davvero troppo enfatico e immobile. E comunque si può scorgere sino alla fine una sua volontà di spiegare, parlare, raccontare, esporre, sbrodolare, caratteristica che, continuando il paragone, supera ampiamente anche le ultime chilometriche prove di King.
D’altro canto, in questa maniera, Simmons è in grado di regalare immagini di straordinaria intensità e di magia narrativa, che toccano l’apice nella lunghissima sezione dedicata alla lotta col fango tra il gruppetto di protagonisti e i loro amici-rivali, e in un riuscito finale che abbonda di liquami, mostruosità informi e viscide protuberanze tentacolari.
A proposito del soprannaturale, allora, bisogna rendere conto a Simmons di lasciare incantati con la sua capacità di centellinare le informazioni dedicate alla misteriosa Old Central e all’inferno che la circonda, trasportando il lettore in un vortice di insaziabile curiosità. Curiosità sapientemente soddisfatta alle porte di un finale rivelatore che, per fortuna, manca della spiegazione certosina da parte del malvagio di turno – al fine di dimostrare la sua superiorità dinanzi a cinque bimbetti troppo spavaldi per la loro età. Ed è essai intelligente il modo in cui l’autore raggira questo fastidioso particolare che infesta la maggior parte dell’universo cinematografico-letterario (e da qualche tempo a questa parte anche ludico, perché no).
Spendere ancora parole sulla penna di Simmons e sul modo in cui dà vita a un manipolo di eroi credibili e realistici – così come alla controparte malvagia – risulta poi superfluo, in virtù della maestria con cui dipinge Dale e i suoi amici, coraggiosi difensori dell’età innocente, e della dettagliata e disgustosa ricerca dell’orrido nell’entità maligna che infesta Elm Haven.
L’estate della paura, comunque, non risulta privo di difetti, sia chiaro. L’eccessiva lunghezza è la prima segnalazione da fare, e di conseguenza il già accreditato fiume di parole veramente inarrestabile dello scrittore statunitense. È giusto anche criticare il personaggio della pestifera Cordy, davvero troppo marcio e sgradevole per poter essere apprezzato in pieno, nonostante il carisma a volte irresistibile che distingue la ragazzina. E infine, per essere completi, in un romanzo di formazione quale è il titolo in questione, manca forse un riferimento ben più marcato a una storia d’amore (o come la si voglia chiamare, quando si hanno dodici anni o giù di lì), passaggio necessario e immancabile di ogni ragazzino che si rispetti: perché anche il continuo riferimento a Michelle Stafney (e l’effettiva freccia di Cupido che arriva verso la fine del romanzo) è probabilmente ancora troppo poco per l’universo maschile disegnato da Simmons.
A ogni modo, queste non sono che piccolezze, fastidiose e immancabili precisazioni che bisogna scrupolosamente trovare in un lavoro di tale spessore, che non inficiano assolutamente sul risultato finale, ma che lasciano invece sperare che la perfezione in questo genere Simmons l’abbia raggiunta con il seguito, A Winter Hunting, che sempre Gargoyle Books pubblicherà per la prima volta in Italia nel corso del 2007.
Recensione originariamente pubblicata su Scheletri.com

venerdì 6 aprile 2007

Premio Scheletri - I risultati

Ecco i 15 selezionati del Premio Scheletri, concorso organizzato da Scheletri.com, che farà approdare gli impavidi finalisti in un'antologia edita da Magnetica Edizioni, che dovrebbe intitolarsi L’orrore dietro l’angolo:

Asualea - Francesco Donato
Dormono nei boschi profondi - Maria Galella
E da lassù vi vedrò crescere - Simone Pera
Fiat Revenge - Sabrina Modesti
Gemma dormiente - Luca Iaccarino
I quadri di Sofia - Marco Crescimbeni
Il nonno di Marco - Marco Cartello
Il pasto della lumaca - Andrea Cavaletto
Le scarpe nuove - Alfredo Mogavero
Nulla - Alberto Calorosi
Occhi azzurri - Raffaele Serafini
Poggia, lacrime, sangue e terra - Simone Corà
Sotto la superficie - Simona Cremonini
Tra le gambe del tempo - Andrea Franco
Zuppa di cicerchia - Marica Petrolati

Il buon riscontro di partecipanti, oltre 140, ha dimostrato la bontà del progetto, messo su con cura, dedizione e sudore dal prode webmaster Alessandro Balestra. Inoltre, la qualità dei racconti che, passato il primo, sanguinario turno giudicato dal solo boss del sito, si è dunque rivelata adeguatamente valida per mettere in piedi un’antologia cartacea che raccolga i 15 più fortunati. Un plauso allora a Lorenzo Nicotra e alla sua Magnetica Edizioni per il coraggio espresso in quest’iniziativa.

Complimenti quindi a tutti, belli e brutti, vincitori e vinti, selezionati e non. E anche a me, a essere sinceri, che il blog è mio e ho il diritto di vantarmi un po'

giovedì 5 aprile 2007

L'horror in edicola

Horror Mania, nel numero di Aprile, si presenta con una terremotate copertina dedicata a 300, film per cui si è smobilitato il boss Andrea G. Colombo in sede di recensione (entusiastica). Nello spazio dedicato alle pellicole appena passate in sala o che vi giungeranno a breve, trovano posto dei veloci commenti relativi a Black Christmas, Inland Empire, e ai prossimi I segni del male e Number 23.
Le anteprime invece regalano gustose news e immagini sanguinolente a proposito dell’attesissimo Black Sheep (horror comedy che prende spunto, risate e budella dai primi vagiti cinematografici di Peter Jackson), l’inusuale Teeth, e il poco appetitivo Blood & Chocolate.
Interessanti gli speciali mensili, che prendono in considerazione una carrellata di film strutturati sull’assedio, mentre orde inferocite di mostri atroci bussano alla porta, una valutazione sulla serie TV di Blade, e lo svisceramento del cult The Blair witch project.
Puntata speciale della serie letteraria Il Diacono, episodio autoconclusivo e slegato dal background precedente, scritto dal suo papà in persona, Andrea G. Colombo.
E, ancora, troverete uno spazio dedicato a due autori nostrani nella sezione letteratura, una decina di recensioni home video (sempre troppo poco approfondite), e i soliti reparti musica, fumetti ed effetti speciali.
La scelta, non sempre felice, di dare ampio spazio alle immagini, gratifica l’occhio, ma restringe i contenuti (ne è un buon esempio lo speciale sull’assedio, dove sono riservate ben due facciate per la sola immagine di locandina de La terra dei morti viventi, decisione grafica parecchio opinionabile), e si spera sempre che vengano lasciate più parole agli articoli e agli approfondimenti.

Il DVD in allegato è il pregevole Candyman di Bernard Rose, con Tony Todd e Virginia Madsen, tratto da un racconto del carnografo per eccellenza Clive Barker.

mercoledì 4 aprile 2007

Pain of Salvation - Scarsick



Primo album con l’inusuale formazione a quattro (il bassista Kristoffer Gildenlow ha lasciato il gruppo un paio di anni orsono, e non ci è dato sapere né chi sia il sostituto, né tanto meno chi si cimenti con il quattro corde su questo ellepi), ma sesto disco (sette contando il live acustico 12:5) per i prog gods Pain of Salvation.
Scarsick, come tradizione insegna, è ancora una volta un concept, e la storia che prende vita dalle liriche è il seguito di quella raccontata in The Perfect Element – Part I, irraggiungibile vetta artistica della band svedese ed enciclopedica fonte di ispirazione per un certo modo di intendere il progressive nel nuovo millennio.
L’album si presenta con canzoni più dirette e lineari, nonostante il minutaggio sempre elevato di ogni singolo pezzo (siamo sui sette minuti di media, classico standard della formazione scandinava). Ma sebbene il sound appaia leggermente più duro e spigoloso del solito, gli echi del precedente e non del tutto riuscito BE si sentono fin troppo. Alcune canzoni, infatti, come la maggior parte di quelle dell’ambizioso concept su Dio, si perdono in paranoiche ricerche di particolari (suoni, samplers, voci filtrate, incerti cambi di tempo e strutturali) che le rendono nient’altro che dei lavori senza né capo né coda (è il caso delle comunque discrete Mrs Modern Mother Mary e Idiocracy).
Al di là di un paio di cali di tono, che fanno storcere il naso e negano la possibilità di gridare al capolavoro, Scarsick resta un album solido ed efficace, fresco e convincente, sorretto da brani di incredibile spessore e bontà artistica (la title track, guidata da un riffing nervoso e da un refrain orientaleggiante, la Undertow-oriented Cribcaged, ballad in crescendo di emotività e spontaneità metallica, la spiritata e piacevole America, la dolce e sofferta Kingdom of Loss, la conclusiva Enter Rain, quella che più richiama gli inimitabili Pain of Salvation dell’era Perfect Element).
Ed è da ammirare la volontà open minded del mastermind-chitarrista-cantante-compositore-scrittore-e-what-you-have Daniel Gildenlow, capace di mettere in piedi la detestabile Spitfall, sette e passa minuti di agonia rappata – rap che, comunque, uscendo dalla sua bocca, risulta lo stesso affascinante e meritevole d’ascolto – e la bizzarra Disco Queen, in grado di riunire una certa discopop tipicamente anni ’80 e un più consueto prog metal di stampo nineties.
Come sempre, i testi sono lunghi e particolareggiati, e racchiudono sinceri e genuini messaggi di rigetto della società. Stupisce soltanto la presenza smisurata di parolacce e imprecazioni varie, che in Cribcaged lascia (positivamente, è bene sottolinearlo) interdetti (è probabilmente l’unica ballata nella storia della musica che ripete la parola fuck per qualcosa come diciannove volte in cinque minuti).
Da inchini la prestazione di Daniel Gildenlow, a parere di chi scrive il miglior cantante attualmente presente sulla scena musicale, proprietario di un range vocale mostruoso e incantevole. Per il resto, prova meno cerebrale ma più liscia e scorrevole (per quanto possa essere lisca e scorrevole la proposta della band svedese) degli altri tre componenti del gruppo, comunque sempre impeccabile e per certi versi sorprendente.
Scarsick, nonostante un accenno più marcato alla forma canzone, non è affatto un album semplice, sia chiaro. Per i non avezzi al genere, infatti, serviranno i consueti svariati ascolti per poter entrare nel multiverso sonoro dei Pain of Salvation. E sebbene sia presente qualche canzone meno rilucente del solito, questa volta, ad ascolto terminato, non rimane quel vago sentore di incompletezza, caratteristica predominante di BE. Certo, non rimangono nemmeno le estasianti sensazioni provate con The Perfect Element e Remedy Lane, ma quello che continua a piacere dei quattro svedesi è il loro fregarsene di qualsiasi catalogazione, e la loro continua ricerca ed evoluzione sonora, che presto, sono sicuro, porterà a un nuovo lavoro monumentale.
Intanto accontentiamoci, perché Scarsick è un signor disco, che già adesso entra di diritto nella top ten del 2007.

2007
Inside Out/SPV

1. Scarsick
2. Spitfall
3. Cribcaged
4. America
5. Disco Queen
6. Kingdom of Loss
7. Mrs Modern Mother Mary
8. Idiocracy
9. Flame to the Moth
10. Enter Rain

martedì 3 aprile 2007

Freddo nell'anima




di Joe R.Lansdale
216 pagine
Fanucci Editore
12,50€


Bill Roberts, un giovane scapestrato che ‘convive’ col cadavere di sua madre per non dover rinunciare alla pensione della donna, dopo una rapina finita male trova rifugio in una carovana di freaks. Questi, esibendo la propria deformità per guadagnarsi da vivere, percorrono in lungo e in largo il Texas orientale, cercando di vivere una vita così detta ‘normale’. Bill sembra trovare finalmente un proprio ruolo nella nuova dimensione da girovago, ma commette un terribile errore: perdere la testa per Gidget, l’avvenente e provocante moglie di Frost, padre e padrone della combriccola di mostri da baraccone.

Sarà che il male ha un fascino particolare, nel suo ricco universo di rigogliose parolacce, comportamenti sibillini e meschini, atmosfere moleste e, perché no, un bel circo di mostri deformi e schifezze deambulanti, ma questa volta Lansdale ha davvero esagerato, con la sua penna cinicamente volgare. Il problema di Freddo nell’anima sta infatti in una prima parte che sì, cattura l’attenzione, ma più che altro per cercare di capire come sia possibile che un romanzo (seppur breve come il qui presente) possa avere, come protagonista, un reietto razzista e squilibrato, che non fa alcunché per nascondere le sue virtù caratteriali. La sua è una strada di redenzione e pentimento, lungi da me tentare di mentire, ma ai nastri di partenza, Freddo nell’anima, si presenta zoppo, gobbo, e con il valore morale di uno sputo di un occhio.
Lansdale è fatto così, e lui stesso dice che i suoi romanzi sono paragonabili a un invitato a cena che – parafrasando lo scrittore texano con parole non sue – risulta essere molto maleducato. Ma il suo ultimo romanzo (ri)pubblicato in Italia, vive di un inizio davvero sgradevole e poco invitante.
Non c’è nessun slancio emotivo nei confronti dello scalcagnato ladruncolo protagonista, né si può trovare una riserva di buoni sentimenti verso il l’esercito di freaks che lo accolgono. Ma è solo questione di tempo, basta un minimo di immedesimazione, poi il gioco è fatto.
Poi, appunto, gradualmente si cambia marcia, assieme al carattere di Bill. Inevitabilmente, si potrebbe dire. La trama muta in noir semplice e diretto, come tanti altri parti letterari di mr Lansdale, straripante escoriazioni offensive e rozzezze sessuali. Ma si riserva, attraverso una virata equivalente a un pugno nello stomaco per via della sorpresa ricevuta, di un sincero spunto di riflessione sul modo di vedere le cose. Sempre e comunque scorretto, sia mai vestire il cowboy scrittore da chierichetto, ma che centra lo stesso il bersaglio sentimentale. E resta impresso (scoprire la vera identità di IceMan è un inaspettato passo da gigante verso il giudizio generale più che positivo). Badate che, a scanso di equivoci, qui non si tratta del famigerato, ambiguo binomio uomo uguale mostro, come si potrebbe pensare spulciando la sinossi. Niente di superficiale, ci mancherebbe.
La penna, questa volta, è di quelle più taglienti e umoristiche, non alla stregua della serie di Hap & Leonard – ai protagonisti manca quel lato smaccatamente sfacciato e super carismatico che contraddistingue la coppia più male assortita della letteratura noir – ma la vena goliardica è sempre partecipe, ed è attenta a intervenire nei momenti più opportuni, con descrizioni sgangherate e metafore bizzarre ma indovinate.
La genesi iniziale dei personaggi è dunque accettabile grazie a quello stile maleducatamente sarcastico, che permette loro di sputare battute al vetriolo e di renderli interpreti di comportamenti comunque buffi e impropriamente ridicoli. Sviscerare poi, poco a poco, i loro caratteri, è una cascata di risate, ma i palati più schizzinosi potrebbero rimpiangere i soldi sborsati, vista la marea dei sconcezze lessicali.
Non è il miglior Lansdale questo, sicuramente, visto che qui espone il suo carattere più estremo e marcio, ma il suo irriverente omaggio ai freaks risulta lo stesso un piacevole e godurioso (e malato, concedetemi il francesismo) viaggio letterario. E il biglietto per il baraccone dei mostri vale la pena acquistarlo.

Si scende

Occhio agli scalini. Ce ne sono parecchi. Sapete, nel caso gli invasori abbiano troppi tentacoli e relativi problemi a scendere le scale. Ci sono anche i bastoni, per quando il nemico è a terra. Dieci mazzate a testa, non di più. Bisogna conservarli. I bastoni, dico, non gli alieni.
E allora, benvenuti nel bunker.
Già, il blog. Alla fine l’ho fatto anch’io. Al di là di un’ignoranza spaventosa in materia internettiana, ho pensato che buttarmi nel calderone non sarebbe stata poi un’idea tanto azzardata. In fondo, lo fanno tutti. Il bello è che, probabilmente come nel mondo editoriale, ci sarà più gente che scrive blog che gente che li legge. Ma tutti qui stanno zitti e fanno finta di niente. E allora mi unisco al coro taciturno, e taglio il nastro delle mie pagine virtuali. Se ci sarai tu a scrutare il monitor, o qualcun altro disposto a leggere, tanto meglio, avrò un buon motivo per stringergli la mano. O guardarle la scollatura, ecco.
Il bunker è nato più che altro per una questione di, come dire, voglia di avere un qualcosa di mio nell’appiccicosa ragnatela del web, uno spazio in cui Simone Corà possa riunire tutto il macinato letterario che gli ordina di scrivere la mente. Recensioni, soprattutto, di film-libri-dischi-e-quant’altro. Ma anche anteprime, biografie, pareri e opinioni. Questo e quello, insomma. Eccolo qui, l’Archivio – nome altrettanto noioso, ma sapete, con l’Apocalisse che incombe, non c’è molta possibilità di lavorare di fantasia – che tenterò di aggiornare almeno un paio di volte la settimana.
Cercherò poi di evitare lagne di post-depressione o piagnistei per il mondo che va a rotoli, ma potrebbe succedere che inserisca anche questi. Se succedesse, siete pregati di usare i bastoni sopra menzionati. Ma ricordate, dieci mazzate, non di più.
Mi sacrificherò per un futuro in cui le perle del passato possano essere riscoperte dagli umani. O dai marziani malvagi e conquistatori, a patto che sappiano leggere. E soprattutto che ne abbiano voglia.